Lo scorso 15 ottobre, in commissione Affari Costituzionali è approdata la proposta di legge n° 1528 firmata da Giuditta Pini. Il solo numero forse non dirà nulla, ma il testo è chiarissimo. L’articolo 2 infatti prevede che “il casco di protezione indossato dal personale delle forze di polizia” riporti “sui due lati e sulla parte posteriore un codice alfanumerico che consenta l’identificazione dell’operatore che lo indossa”.
In caso di mancato rispetto della legge, o se il codice viene “oscurato” o scambiato con altri poliziotti, la violazione costerà all’operatore da 3mila a 6mila euro. Più le sanzioni disciplinari del corpo cui appartiene.
La proposta è stata presentata alla Camera lo scorso 23 gennaio e assegnata alla Commissione Affari Costituzionali il 15 ottobre 2019. L’esponente dem riconosce “il compito centrale delle Forze di polizia”, ma sostiene sia necessario adeguarsi di “strumenti per la tutela dei cittadini” contro “eventuali abusi del diritto che occasionalmente si potrebbero verificare”.
Come noto i sindacati di polizia sono contrari. Perché il rischio è che alla fine si finisca col “dare addosso” al povero poliziotto o carabiniere che passa ore a subire insulti, bombe carta e sassate e alla prima carica di alleggerimento rischia di finire sul patibolo. L’identificativo, dice al Tempo Gianni Tonelli, sindacalista e deputato della Lega, crea “avversione” e può “mettere in soggezione” chi si ritrova in tenuta antisommossa. Mentre per il segretario generale del Coisp Domenico Pianese è “una vergogna”.
In Europa quasi tutte le forze dell’ordine hanno un codice identificativo per scoraggiare soprusi e identificare i colpevoli in caso di violazione delle norme. Per evitare che fenomeni di violenza di questo genere possano accadere e rimanere impuniti, la società civile europea lavora da tempo per l’introduzione dei cosiddetti collar number (numeri sul collo), o shoulder number (numeri sulla spalla). Si tratta di codici identificativi usati per riconoscere i singoli ufficiali di polizia, che altrimenti non sarebbe possibile identificare in situazioni di confusione come assemblee, manifestazioni o quando intervengono col volto non totalmente scoperto. Non in Italia, che insieme a solo altri quattro paesi continua a non obbligare i propri agenti a farsi riconoscere. Nonostante le pressioni di Onu e Ue.